*Intervista esclusiva ad uno dei padri dell'industria italiana: Mario Carraro**
C’è una Opel Insigna grigia che mi aspetta davanti alla stazione di Padova, destinazione Campodarsego, alla guida c’è Antonello.
Senza volerlo l’intervista a Mario Carraro inizia in macchina perché un autista di famiglia – tanto più quando la famiglia è un’azienda come Carraro Group – lavora come una spugna di mare. Assorbe, trattiene, assorbe, rilascia. Il lungo tavolo della sala riunioni in cui mi fanno accomodare non fa una piega d’imbarazzo davanti a un enorme Mappamondo di Boetti.
“Ho appena fatto l’elettrocardiogramma per rinnovare la patente. Pensi che, mentre aspettavo, mi è venuta incontro una persona anziana come me. Voleva salutarmi, dirmi che stimava ciò che avevo fatto nella vita, ma io non la conoscevo proprio. Nel ringraziarlo ho pensato che invecchiando si impara a ragionare senza arroganza, senza supponenza, senza orgoglio. A quasi 88 anni certo che continuo a dire cosa penso e a dirlo anche in modo deciso, molto spesso lo faccio anche su Facebook. Non sono entrato in questa azienda da tecnico perché non lo sono. Erano i primi anni ’50 quando mio padre un giorno andò da un ragioniere che conosceva molto bene e gli chiese di avviarmi al lavoro: Non penserai mica che Mario entri in fabbrica? E infatti ci sono entrato tardi perché ho sempre avuto più passioni contemporaneamente. Quando persi mia madre avevo quattro anni, due fratelli più piccoli e tre più grandi. Lei se ne andò di parto che ne aveva 36, al nono parto, e tre mie sorelle erano già morte di spagnola pochi mesi prima che io venissi al mondo. Origini semplici le nostre, con un padre da quinta elementare e una scuola di disegno frequentata qui vicino, eppure ognuno di noi ha coltivato chi la musica, chi la letteratura, chi la pittura. A vent’anni, sotto militare, mi lessi tutto Proust. Ci siamo sempre scambiati arte in casa e nessuno di noi aveva una propensione industriale verso l’azienda ma io qui dentro ho sempre portato la mia visione aperta, e l’ho sempre fatto in modo spinto”.
Pochi minuti e le domande che avrei voluto farle si moltiplicano già. Però un punto vorrei fissarlo: esistono parole vecchie senza essere mai state giovani e la prima è “innovazione”.
Se ne parla male. Nelle aziende non dovrebbe esserci un innovatore perché è l’azienda in sé che deve essere innovatrice in tutto il suo insieme. Da quando negli anni ’80 introducemmo il Kaizen (prendendo persino un premio qualità Ford nel 1988), il mio principio è sempre stato che un’azienda è innovativa quando anche il suo portinaio lo è. Ho imparato col tempo che realizzarlo è difficilissimo perché la gente che lavora per te ti asseconda e basta se non li coinvolgi rendendoli parte attiva. Il top-down è sempre fondamentale se inteso come riconoscimento reciproco.
E’ solo una questione di scelta accurata delle persone giuste?
Difficile sia solo questo. Io sono molto amante del cinema e, pensi, se durante il colloquio mi dicevano di non avere questa passione non le assumevo. Se inserisci in azienda persone senza passioni, alla lunga tutto si fa sterile. Negli anni ’60 eravamo piccoli, a gestione familiare, siamo cresciuti piano ma bene. Io non so leggere un disegno tecnico ma la vera dote di un imprenditore non è lui stesso, è il suo personale. Tempo fa, a fine anno, portai a casa mia alcuni dirigenti con le rispettive mogli che si presentavano per la prima volta: a me erano sempre sembrati amici al lavoro e di fatto lo erano, eppure le loro famiglie non si erano mai incontrate. Dicevo sempre a tutti i miei collaboratori: “Venite a parlare con me ma sappiate che tutto quello che mi direte è pubblico, non parlatemi del pettegolezzo – che ci sta in azienda, ci mancherebbe – ma di qualcosa che sia utile a tutti e che potrò usare in riunione se dovesse servire”.
E una volta scelti, come si restituisce nel tempo il giusto valore ai collaboratori?
Ho un ricordo chiaro. Anni ’60, Fiera di Padova, presentavano la prima fotocopiatrice Xerox. Ci andai con il nostro Amministratore delegato che disse “Se fossimo più grandi potemmo comprarla”. Gli risposi che l’avrebbe avuta il giorno dopo perché quella per me era uno strumento di comunicazione e non solo una fotocopiatrice. Ci avremmo potuto riprodurre lucidi, far viaggiare il nostro messaggio, usarla per le nostre presentazioni. Dopo sei mesi ne comprammo una seconda perché la prima era sempre intasata di richieste. Anche sul campo tecnico ho cercato di portare la sensibilità e la logica, soprattuto nelle riunioni. Devo dirlo: secondo me siamo cresciuti anche grazie a questo. Purtroppo l’azienda è stata duramente messa alla prova nel 2009 con un calo degli ordini del 55% dopo che, un po’ di tempo prima, Caterpillar ci aveva chiesto se eravamo pronti a dare il 20% in più per gli anni successivi. “Certo che ci prepariamo”, dissi, ma poi ci fu un calo drastico anche per loro. Un terremoto è dir poco perché lì bene o male qualcuno ti aiuta; sono stati anni davvero critici, la nostra fase più critica. L’azienda mi vuole bene, lo sento, ma si è dovuto anche licenziare. In ogni caso, se tornassi indietro, punterei ad un’azienda ancora più grande.
L’Italia e le aziende di famiglia.
Imprenditori individuali e gestioni familiari creano sempre un condizionamento. Cito un caso su tutti, è la storia del mio amico Ivano Beggio, a lungo Presidente della Aprilia. Gli offrivano 1.000 miliardi di lire, gli dissi: “La fabbrica non porta nemmeno il tuo nome, cedila”. “Mario, non ce la faccio”. E potrei citarne molti altri di casi come questo in cui l’imprenditore si mette troppo al centro e spesso non coglie occasioni che non vanno viste individualmente ma per il bene complessivo dell’azienda. Tenere duro coi valori familiari è indubbiamente un sostegno ma il filo sottilissimo va capito volta per volta, non c’è mai un assoluto. Sono convinto che nel 2009 avremmo dovuto fare un aumento di capitale con capitali esterni e avremmo risolto prima. Questa paura familiare tutta italiana è stato sempre un freno allo sviluppo di grandi aziende nazionali che infatti non abbiamo più. L’unica modalità in cui siamo stati sempre bravi è quella delle agevolazioni, Fiat su tutte. Non tutti sanno che, per merito del governo italiano, le macchine giapponesi sono arrivate con qualche anno di ritardo da noi per evitare concorrenza alla Fiat. Così come avremmo avuto una Ford in Italia se, quando Ford era l’acquirente di Alfa Romeo, Fiat non avesse fatto in modo che l’affare non si chiudesse. Forse sarebbe stata un’Italia diversa.
Lei e le istituzioni, le associazioni, le rappresentanze.
Io da Presidente di Confindustria veneta non ho finito il ciclo perché dissi a Fossa – allora Presidente nazionale dal ’96 al 2000 – che non mi era sembrata felice una sua dichiarazione su Prodi, il quale ritardava nel dare contributi alla Fiat. Non ho avuto paura di ripeterlo ad Agnelli. Fossa, da cui nasce il declino, era stato messo lì da Romiti per avere una pedina. Sapendo che non ero favorevole a Fossa, Romiti mi disse che dovevo cercare di sostenere i Saggi. Dissi che non ero d’accordo ma che avrei portato il voto dei veneti.
I miti dell’industria veneta esistono ancora?
La cultura veneta del piccolo e bello ha fallito da ogni punto di vista ma era prevedibile come nelle Marche, che ha una indole manifatturiera simile. Già quindici anni prima, l’internazionalizzazione stava diventando un fattore determinante di mercato, si capiva che sarebbero servite le dimensioni e loro invece portavano avanti il piccolo. In India, con Prodi, incontrai i piccoli industriali veneti chiedendomi dove sarebbero finiti visto che già faceva fatica il grande, figuriamoci i volumi ridotti. Noi iniziammo nel ’95 in India, oggi abbiamo più di 1000 persone, con l’unità più grande della Carraro. Abbiamo anche una Carraro Technologies che ingloba tutti ingegneri che collaborano da sempre con le altre sedi. Spinsi fortemente per un’impostazione come questa. E invece Confindustria continuava ad alimentare le piccole aziende, migliaia di piccole aziende, la cui maggior parte ha meno di dieci persone. Quelle non erano industrie, non erano imprese. Oggi all’Italia farebbe bene dire chiaramente che siamo retrocessi, e se lo facessimo con orgoglio avremmo un senso per tornare a puntare in alto. In questi anni di crisi, la perdita in Italia del manifatturiero è stata del 25%, la Germania è cresciuta del 15%: non possiamo non pensare che questa crescita non sia coincisa con un aumento del loro investimento in ricerca e sviluppo. Le crisi sono prevedibili se le si sa in qualche modo gestire per tempo. Ora, ad esempio, sono passati quasi dieci anni da quella del 2009 e per me è già un intervallo troppo lungo, dobbiamo aspettarci che ne arrivi un’altra. Le crisi sono sempre cicliche.
Gli ultimi dieci anni delle industrie venete.
Cè stata una presa di coscienza collettiva, i suicidi lo hanno espresso in maniera drammatica che la cultura del piccolo e bello è crollata distruggendo identità individuali prima ancora che collettive. Abbiamo bisogno di essere tutti molto chiari altrimenti non se ne viene fuori da questa ipocrisia: le banche sono piene di industriali nei consigli di amministrazione, paghino pure loro una responsabilità questi industriali. La Banca Popolare di Vicenza aveva al proprio interno ben tre Presidenti di Confindustria venete – due di Vicenza e uno di Treviso. Devi lasciar fare quel lavoro a chi conosce quel mestiere perché se non conosci le logiche di economia e finanza devi starne fuori, altrimenti tutto scade a concessioni e compromessi. Invecchiando ho trovato che c’è una grande qualità che un uomo può usare ed è l’umiltà, non la modestia che è tutt’altra cosa. L’umiltà ti porta a pensare alla sera cosa hai sbagliato durante la giornata.
Leggere, informarsi, capire. Qual è stato il suo stile?
Scrivevo sul Gazzettino ed ero un grande amico di Giorgio Lago. Un giorno Beggio mi chiama per riportarmi le lamentele di altri industriali che mi consideravano uno di sinistra. Sono sempre stato una mente aperta e liberale con una grande attenzione ai processi del sociale ma da qui a dire che ero comunista ne passa. C’è anche da dire che qui in Veneto venivi classificato anche solo se leggevi La Repubblica. A molti non sono mai andato bene al punto che nei primi anni ’90 mi vennero a dire che dimostravo troppo interesse a Internet: questo loro rimprovero testimonia oggi i ritardi collettivi di un’Italia intera. Però devo dire che il disinteresse verso i nuovi strumenti e modelli a volte è diffuso. Ripenso a quando portai in Carraro il rappresentante italiano di Yahoo e il guru dell’IBM: riunii dirigenti, capi ufficio, operai, una giornata dedicata a internet ma purtroppo senza riscuotere troppo interesse. A volte mi dico che leggo troppo, io tra l’altro leggo da molto tempo solo stampa straniera. I giornali li leggo di carta o digitali, purché siano fatti bene. Lo stile del The New Yorker è il giornalismo che vorrei leggessero tutti, chiaro e schietto. E’ solo l’autorevolezza dei giornalisti che rende merito al mestiere. E’ normale che esista da noi un giornale di Confindustria? La Germania, con l’industria che si porta dietro da sempre, non ce l’ha mica un giornale come Il Sole 24 ore.
Per me il grande momento editoriale italiano è stato quello di Mario Pannunzio, direttore del Mondo. Se mi chiede se ho avuto un padre ispiratore, le dico che è stato lui. Un riferimento politico serio, un giornale fatto con onestà e con garbo, non c’erano mai errori di stampa e io guardo anche a questo. Il direttore dell’Ecomonist si legge tutto il giornale prima che vada in stampa, anche gli annunci pubblicitari. Due anni fa ero stato citato dal New York Times come Mario Carrera, scrissi al giornale e il giorno dopo rettificarono. L’Italia si perde anche in quelli che reputa dettagli e che invece non lo sono, la nostra informazione non è cultura seria. Se lei va la sera della domenica sulla versione online del Mattino, non trova i risultati dello sport perché sennò chi comprerebbe la versione cartacea del lunedì? Non ha senso questa difesa della rendita di posizione della carta, il pubblico è cambiato e chiede altro.
Che cosa l’ha portata verso internet in tempi non sospetti?
Teoricamente non era il mio mondo, amavo la letteratura più di ogni cosa, ma internet era il mondo che cambiava. Internet è ancora il mondo che cambia e va ascoltato per essere tradotto.
La scarsa umiltà delle imprese italiane la dimostra anche tutto questo parlare dell’industria 4.0, a cui non siamo preparati. Non siamo pronti, ho seguito molto da vicino la questione. Solo l’Italia non ha ancora capito cosa sia, il resto del mondo che va avanti già lo chiama IoT. Noi ci facciamo domande mentre il mondo va avanti. Non c’è un libro sacro tradotto in italiano. Il 4.0 porterà vari problemi, quello della dimensione su tutti: servono il cloud, una rete perfetta e una banda larga capillare. Si parla invece di 4.0 mettendo paura alla gente e la paura da sola non serve, va sfruttata come passaggio di trasformazione sociale. Gli italiani leggono poco, si informano poco e non sono elementi da poco, questi.
Consideriamo stranieri anche i robot, in Italia.
Li abbiamo già avuti i robot tradizionali. Il Giappone faceva robot perché non aveva persone e non voleva immigrati, l’America li metteva nelle industrie automobilistiche. Oggi i centri dei robot sono America e Cina che hanno sviluppato l’intelligenza artificiale: il 50% dei brevetti di IA è cinese. Io vado ancora bene coi numeri, meno coi nomi. Per guidare bene un’azienda occorre avere le idee e capire il mondo degli altri, così come non serve essere un massimo esperto di tecnologia per guidare un’azienda tecnologica.
Perché nessuno si chiede cosa farà il nostro Paese?
Oggi ho estratto dal Financial Times un articolo su Baviera, Schäuble e i siriani. Nonostante si sappia bene che politica sia la sua, lui ha destinato alla nuova immigrazione un programma di 9 miliardi di euro provvedendo come prima cosa all’insegnamento del tedesco, all’asilo per i piccolissimi, alle scuole per i ragazzi e a un avviamento al lavoro per i più grandi, con l’impegno di costruire 28.000 appartamenti per queste famiglie. Per carità, è legittimo che in Italia si parli di immigrazione in termini di umanità ma alla fine cosa risolve? Così non andiamo da nessuna parte, non aiutiamo nessuno, non integriamo culture e società, non salviamo l’industria di un Paese. Da qui al 2050 ci sarà un miliardo di africani in più: cosa ne faremo, come ci stiamo preparando?
Trenta anni fa Jeffrey Jackson era convinto che l’Africa non avrebbe avuto un futuro, terra troppo calda in ogni senso. Invece tutto è in evoluzione e questa evoluzione va aiutata. La Germania ha da sempre fabbriche con immigrati dentro, li ha selezionati e li ha voluti. La Turchia ha una legge industriale non trascurabile e in Turchia ce ne sono e come di aziende con capi tecnici che sono rientrati dopo anni di esperienza vera in Germania.
I falsi modelli del successo industriale italiano.
Credo che l’Italia enfatizzi troppo la sua convinzione di essere l’alto mercato di riferimento nella moda. Chi abbiamo attualmente di davvero significativo? Benetton ha oggi un fatturato pari all’utile di Zara e, al tempo dei grandi fatturati di Benetton, Zara nemmeno esisteva. Ricordo un’intervista di anni fa a Hermes: “Voi produttori del lusso”, sentenziò il giornalista e lui rispose “Non siamo produttori del lusso, siamo produttori di qualità”. Mi vanno bene i Farinetti e i Cucinelli ma mica faremo l’Italia di queste persone qui? Invece di esaltare le posizioni singole dovremmo ragionare pubblicamente sul sistema generale, su quanto stiamo invecchiando, a che punto sta il tessuto industriale.
Io oggi faccio fatica a parlare della nostra industria, sono troppo condizionante e non sono più neanche nel CdA del Gruppo Carraro. E’ giusto che me ne stia fuori e se tornassi indietro lascerei prima. Bisogna lasciare per tempo o comunque cambiare funzioni, è giusto così. Ho sempre mantenuto per fortuna uno spirito innovativo, lo so di averlo persino adesso a questa età, ma non sono mica più sicuro della mia intelligenza con gli anni che ho adesso. Arriva un tempo in cui solo gli altri possono dirti e farti capire se sei ancora lucido. A me mancano tutti i nomi e benedetto iPhone che mi aiuta con la rubrica dove spesso aggancio i ricordi per arrivare al nome che cerco. Non sono così disastrato ma il tempo ci rende per forza diversi da quello che eravamo e quando in azienda hai un peso forte, ma non riesci più a dare una continuità, devi andartene. Nei prossimi sei mesi compirò 88 anni e poi mentalmente mi preparerò ai successivi primi sei mesi degli 89. Non mi spaventa invecchiare perché ho sempre tenuto con me le cose che amo: la scrittura, la lettura e la musica. Se ti porti nel tempo le cose che ami, il tempo non ti fa niente.
Dove andiamo ad investire, allora, per un’Italia più cosciente?
Ai ragazzi, fin da bambini, va spiegato quanto conta la scuola per la loro maturità. Bisogna spendere sulla scuola soprattuto adesso che abbiamo questi stravolgimenti culturali. Le scuole migliori al mondo sono in Finlandia – tra l’altro ci vanno a sette anni e non a sei – e qualche anno fa lessi il libro di una giornalista americana che raccontava di una bambina intenta a riferire alla maestra di come sua madre volesse sapere perché le aveva dato un quattro. La maestra rispose “Sei tu che dovresti chiedermi perché ti ho messo quattro, non tua madre”. L’Italia ha bisogno di responsabilizzarsi e di riscoprire una moralità. Così la scuola, il lavoro, l’industria, ognuno di noi. Questo è un paese vecchio da troppi anni. I tedeschi vanno in India e selezionano gli ingegneri migliori, si sa che sono i più abili a livello informatico. Noi importiamo i camerieri, senza togliere niente ai camerieri. Se non sai dove vuoi andare, non ci arriverai mai.
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