Nel corso dell’ultimo mese si sono verificati alcuni fatti, in Italia e all’estero, di rilevanza così significativa ma così opposti nella loro natura, che non è facile dar loro un ordine o un’interpretazione univoca. Sembrano emergere tendenze in conflitto tra loro. La dimensione dei fenomeni e delle aziende coinvolte è così rilevante da meritare una attenta riflessione.
Proviamo a riassumerli:
il 31 marzo scorso la quotazione alla borsa di Londra di Deliveroo, il leader e colosso mondiale delle consegne a casa, si è risolta in un fiasco. Il debutto si è chiuso con un sonoro – 26 %.
Gli analisti hanno bocciato un titolo e un modello di business che, in un mondo sempre più attento ai valori sostenibili ESG, si basa sull’impiego estremo dei giovani riders.
Qualche mese prima, esprimendosi sullo stesso tipo di lavoratori, ma l’azienda in questo caso era Just Eat il giudice del lavoro italiano, aveva deciso che in Italia, i comandati da un algoritmo non possono essere considerati lavoratori autonomi e ha disposto l’assunzione di migliaia di essi.
Sulla stessa falsariga, nel mese di febbraio UBER, il player mondiale (ma vietato in Italia) dei taxi si è vista costretta dai giudici inglesi ad assumere niente di meno che 70.000 dei suoi autisti.
Rispetto a queste notizie che sembrerebbero indicare, sia da parte dei regolatori che da parte degli investitori, una crescente attenzione verso le condizioni dei lavoratori sono successe altre vicende, di senso diametralmente opposto, e altrettanto eclatanti per la loro rilevanza.
A fine marzo ha fatto scalpore la protesta dei neoassunti della banca d’affari Goldman Sachs, leader mondiale in molteplici settori della consulenza finanziaria, tra le aziende più importanti e ricche del pianeta, che hanno protestato sui social per gli orari folli, superiori alle 100 settimanali (avete letto bene). Lo sfogo di giovani estremamente promettenti, usciti dalle migliori università mondiali, assunti dopo selezioni durissime e proiettati verso carriere scintillanti, considerati nel mondo del lavoro come l’élite dell’élite, che protestano come un qualsiasi operatore di call center non si era mai sentito. Rispetto ai proclami ESG provenienti dalla blasonata aristocrazia finanziaria è difficile non pensare che, ancora una volta, predicano bene e razzolano male.
E, all’altra parte della scala sociale, non è passata inosservata neppure la protesta mondiale dei lavoratori di Amazon che hanno incrociato le braccia per la prima volta nella loro storia. Qualche giorno dopo, questa volta soltanto in Italia, la stessa multinazionale americana ha dovuto ammettere che i ritmi di lavoro dei suoi autisti sono tali da costringerli ad urinare in bottigliette a bordo dei propri furgoncini.
Da ultimo, e forse è la vicenda più complessa e che sarà più oggetto di commenti e attenzioni, nei giorni scorsi il CEO di Danone è stato costretto alle dimissioni dopo che alcuni fondi di investimento hanno attaccato il titolo contestandone le politiche gestionali, ai loro occhi troppo attente alle esigenze sociali piuttosto che non agli utili di bilancio.
Un certo mondo del business ha lanciato un segnale fortissimo rispetto al bilanciamento tra sostenibilità ESG e marginalità aziendali. Per questi investitori, il ritorno sociale dell’azienda consiste nel fare utili. Un’azienda solida e florida genera di per sé stessa un ritorno sufficiente rispetto al suo contesto e ai suoi stakeholders senza necessità di disperdere il focus in altri rivoli sociali.
Forse siamo soltanto in presenza di alcune battaglie di retroguardia, rispetto ad una evoluzione senza via di ritorno verso un mondo del lavoro più sostenibile e attento alle persone. Probabilmente per molte categorie di lavoratori, spesso e volentieri i più giovani, la guerra dei poveri non finirà mai. Forse assisteremo a una progressiva divaricazione tra sommersi e salvati, tra chi continuerà ad annaspare e chi godrà del lavoro in aziende sempre più tutelanti, smart e sostenibili.
Il dibattito è aperto.